Alcuni anni fa scrissi un testo di fantasia pensando a cosa i nostri anni avrebbero lasciato in eredità a Lucca e ai miei colleghi futuri, le guide degli anni tremila.
Fantasticando, pensai all’uso di una mia personalissima macchina del tempo grazie alla quale potevo vedere un collega illustrare l’attuale periferia lucchese e le rovine dei numerosi supermercati multi marca – Esselunga, Coop, Lidl, Carrefour, Dolif , Pam, ecc.- che attualmente “stringono d’assedio” la periferia ed in alcuni casi sono già penetrati con piccoli punti vendita nel centro storico.
Che eredità lasceremo? Credo un’eredità pesante di un epoca che si è quasi adagiata comodamente sul consumo di massa. Altro che anfiteatri, mura e arte romanica!
In quei luoghi – i “non luoghi” come li definisce l’antropologo Marc Augé – , si svolge il rito quotidiano, impersonale, ripetitivo e ben organizzato del consumo massivo di tonnellate di prodotti ai quali, sia chiaro, anche il sottoscritto partecipa. Molti di questi prodotti, in particolare quelli vegetali, da alcuni anni a questa parte, sono venduti con il marchio “bio”.
Il chilometro zero è poi un’altra significativa bandiera da sventolare nel caso i prodotti vengano dal territorio circostante.
Da qui il crescente successo dei mercatini rionali e dei mercati equo solidali.
Tuttavia, oggi pochi sanno o ricordano che per molti cittadini che sino al dopoguerra abitavano all’interno delle mura urbane, la produzione di frutta, verdura ed in parte carni bianche, avvenisse a chilometri non zero, ma quasi sotto zero !
La zona est della città infatti, quella che si trova a quota -3 metri rispetto al livello del fiume Serchio, è sempre stata ricca di orti, frutteti e giardini.
Già dal Medioevo, i quartieri cresciuti rapidamente all’esterno della cinta muraria duecentesca a causa dello sviluppo economico e demografico della città, oltre che dal richiamo all’inurbamento delle popolazioni circostanti dovuto alla richiesta di manodopera delle attività seriche, si trovarono ben presto all’interno di una nuova cinta di mattoni in grado di offrire una prima protezione in caso di attacco nemico. Più spesso, servì nei secoli a porli all’asciutto proprio dalle frequenti e devastanti inondazioni del fiume Serchio che, irrimediabilmente, tracimando fuori dal suo alveo, trovava una via naturale in discesa sino a lambire tumultuosamente, appunto, le mura cittadine.
Il Serchio: gioia e dolore di una intera popolazione.
Credo sia a questo punto interessante comprendere, grazie a documenti storici forse inediti, come si sia sviluppata questa area della città sin dalle sue origini.
Nelle cronache della chiesa di San Francesco costruita nel 1229 nella zona sub urbana fuori la “Fracta” nella zona detta “infra chiassi”, alla data 1374 si legge:
“Giovanni degli Albizi tentò di sorprendere Lucca col mezzo dei Tedeschi di Corrado di Ossingham Borenal Germanico che passava per qua; ….La gente tedesca prese solo Moriano Castello già degli Obizi, subito con gente di Lucca si riprese e (si) demolì dai fondamenti. Corsicato un picciol ramo del Serchio dal Ponte a Moriano se ne fece un condotto con l’acqua che viene nella città. Si eresse uno studio in Lucca per leggersi scienza. Per evitare scorrerie di cavalli per la città furono incatenate le strade.”
In questa lista di saporite notizie di cronaca locale del tempo, emerge l’ideazione e la costruzione di quello che sarà poi definito condotto pubblico, concepito, in un primo momento, come si evince dalle note delle scorrerie militari ostili a Lucca, per puri motivi difensivi.
Nel 1377 passerà da Lucca Giovanni Acuto con quattromila cavalieri e “si cominciò a far torrioni intorno alle mura della città con obbligo ad ogni podestà di farne uno. Si cinge di mura Camaiore”.
Cinquant’anni dopo, al tempo dell’aiuto dato ai lucchesi da Niccolò Piccinino contro i fiorentini consigliati da Cosimo de Medici si legge:
“1436 – Lucca fece cavare fossi profondi attorno alle mura della città e vi mandò l’acqua … si fecero le prime moline dentro in Lucca al Portone di San Gervasio che ora si chiama della Nunziata e molte altre provisioni.”
Ecco la prima significativa notizia che riguarda un’attività che necessitò di forza idraulica e tecnologia in questa particolare zona della città.
Un chiaro, virtuoso esempio che sposterà una necessità di sopravvivenza legata alla difesa militare a favore di un importante impulso allo sviluppo delle attività tecnologiche legate invece alla produzione serica, laniera e di tintoria dei prodotti da mettere in commercio.
Nonostante ciò, se si escludono gli edifici che seguono il pubblico condotto e quelli ecclesiastici che sono la maggior parte, tutta questa vasta zona, che sarà poi definitivamente compresa nell’ultima cerchia di mura del XVII secolo, sarà sempre caratterizzata da estesi appezzamenti di terreno dedicati ad orti, vigneti, frutteti e quant’altro si potesse produrre per il sostentamento della popolazione urbana in maniera autonoma, oserei dire autarchica.
Saranno proprio gli ordini minori legati ai Francescani ad acquisire nel tempo gran parte di questi terreni grazie a donazioni, lasciti ma anche acquisti con moneta sonante.
L’itinerario che Turislucca ha proposto, “Ti porto all’orto!”, oltre ad introdurre il visitatore a questa porzione della città grazie ad una esposizione che pone in rilievo la sua evoluzione urbanistica in chiave storica, mostra in concreto alcuni di questi spazi verdi normalmente chiusi al cittadino o al turista di passaggio.
Il primo luogo che viene mostrato è proprio un orto/giardino posto in fondo a via dei Borghi, di fronte all’edificio cinquecentesco dell’ex mulino pubblico, oggi in uso ai padri Comboniani ma un tempo di proprietà dei frati Cappuccini. Questa proprietà è ben individuabile da una “pianta geometrica di Lucca”, stampata nel 1843 in occasione del quinto congresso dei sapienti italiani da Paoli Sinibaldi.
Padre Giuseppe, di origini veronesi, è colui che oggi (2017) con perseveranza e passione segue le varie piante dell’orto che coprono una buona porzione del bel giardino antico.
Il giardino si divide in due parti. La prima caratterizzata da orto, alberi da frutto e una spettacolare pergola di kiwi – ma tipica per questi orti – che si arrampica su antiche colonne di granito. Si accede al giardino contiguo, diviso da un muretto, grazie ad una porta sormontata da un arco. Qui si trovano altre piante, alcune esotiche, che costeggiano il muro di cinta ed un prato che viene dedicato al gioco dei bambini, dei giovani ed alle riunioni conviviali. Uno spazio che i Comboniani aprono a coloro che ne fanno richiesta per riunirsi pacificamente. Un bell’esempio di apertura ai cittadini che pochi conoscono.
Poco più avanti, poco dopo i fossi, grazie alla collaborazione del negozio di antiquariato “Del Debbio”, attraversando lo spazio espositivo e quella che una volta era un’antica cucina, accediamo ad un cortile a verde con grandi coppi di agrumi. Da qui si possono vedere i giardini adiacenti. Di fronte al negozio un’altra proprietaria ci consente gentilmente l’accesso al suo giardino privato. Attraversando un portone ad arco, troviamo un pergolato sostenuto da colonne simili a quelle del giardino dei Comboniani. Anche qui il giardino, esso stesso diviso in riquadri con piante e fiori di vario genere, si divide in due parcelle collegate da un cancello.
Usciti dalla proprietà, torniamo di pochi metri sui nostri passi lungo “i fossi”. Qui troviamo l’antico Mulino pubblico, oggi in stato di abbandono. Fino a qualche tempo fa la proprietà aveva pensato di ristrutturarlo in un albergo o edificio residenziale turistico. La burocrazia, i vincoli architettonici e probabilmente gli alti costi di realizzazione, ne hanno impedito evidentemente la realizzazione.
L’antica pietra della macina giace semi sepolta alla base del poggio che delimita il condotto dalle mura urbane, come in un dipinto tardo romantico di rovine desolate.
Il condotto pubblico o via dei Fossi, come lo si voglia chiamare, del quale abbiamo già tracciato brevemente le sue prime vicende storiche, è oggi all’attenzione dell’associazione “Custodi della città”.
Lungo le vie che lo costeggiano su ambo i lati si possono ancora “leggere”, sopra alcuni edifici, le tracce lasciate dalle attività manifatturiere dei laboriosi lucchesi che per secoli sino ad alcuni anni fa le hanno usate, dai lanifici alle tintorie.
Alcune foto d’epoca e alcuni disegni d’archivio ne sono poi la prova più eloquente.
Giunti alla Madonna dello Stellare, voltiamo, per avvicinarci alla chiesa di San Francesco attraversando l’omonima piazza. Nel corso dei secoli l’antica Chiesa, aumentando i suoi spazi claustrali, si dotò di tre chiostri, ognuno dei quali aveva un preciso compito: giardino, orto per la coltivazione di ortaggi da distribuire alla popolazione bisognosa e giardino dei semplici. Oltre a questi, negli spazi esterni agli edifici dove si trovavano i dormitori, biblioteche e i servizi ma sempre facenti parte del complesso dei frati minori, si coltivavano viti, alberi da frutto ed altri ortaggi oltre che, probabilmente, pollame. Lo si evince anche da un disegno già noto della mappa del convento dei Domenicani di San Romano che, se pur più limitato negli spazi presentava probabilmente le stesse caratteristiche.
A destra della facciata di San Francesco, imbocchiamo via Santa Chiara. La via prende il nome dal distrutto monastero medievale delle Clarisse. Distrutto nel dopoguerra per la costruzione del Genio Civile, ha lasciato spazio anche ad un giardino oggi in gran parte coperto da lecci e platani.
In fondo, vicino al muro di recinzione che confina con Villa Guinigi, si è potuto realizzare un progetto di orti urbani pubblici. Venti casse di legno delle dimensioni di circa un metro e mezzo per tre, ospitano piccoli orti coltivati da privati cittadini appassionati del settore. In inverno rapini, cavoli, cavoli neri, cipolle, radicchi, sembrano facciano a gara per mostrare chi fra i “coltivatori” ha il pollice più verde.
Oltrepassando via Elisa, il monastero di San Micheletto, giungiamo nei pressi dell’Orto Botanico, in via del Pallone.
Qui non ci fermiamo poiché ci riserviamo, per la sua importanza, una più approfondita visita di questo luogo così affascinante e ricco di storia botanica. Ci preme tuttavia ricordare ai visitatori che prima di essere un orto botanico, fu il terreno dove, in antichità, venivano sepolti coloro che al momento di essere giustiziati, avevano rifiutato di ricevere i sacramenti. Per questa ragione nessuno volle mai costruire qui alcun edificio e di conseguenza, nel Seicento, i lucchesi decisero di usarlo per un unico ludico scopo: vi giocavano al pallone. Ne è testimonianza una stampa che è a sua volta copia di un dipinto perduto. Di questo gioco del pallone, analogo nelle regole e nelle sembianze al calcio in costume che ancora oggi si gioca a Firenze, ne parla diffusamente nei primi del Novecento in un suo libro sulla storia dello spettacolo a Lucca l’accademico Almachilde Pellegrini.
Percorrendo i vicoli deserti e affascinanti che lambiscono le mura della chiesa di Santa Maria Bianca, raggiungiamo l’omonima piazza. Imbocchiamo per pochi metri la via Santa Croce e subito svoltiamo in via dell’Arcivescovato.
Seguendo il muro a mano destra, appena oltrepassato un affresco ormai a brandelli compiuto, come vi si legge per devozione, nel 1911 e rappresentante la crocifissione, arriviamo ad un portone intonacato.
Entriamo e ci troviamo nell’orto dell’ ex convento del monastero dei Servi, oggi Agorà.
Qui troviamo un vero e proprio orto. E’ stato realizzato grazie al progetto della Regione Toscana “mille orti per la Toscana”. Viene coltivato e gestito da un gruppo di volontari che attuano una produzione di ortaggi sostenibile e biodinamica. Gli ortaggi vengono piantati in modo tale che le specie aiutino la specie limitrofa, oltre ad attirare o scacciare insetti nocivi o benefici tramite il rilascio di sostanze chimiche naturali utili all’ortaggio piantatole vicino.
Un orto fra i più affascinanti e ben riusciti fra quelli visitati sino ad ora!
Una sbicchierata con un buon rosso locale ed una fetta di torta di verdura lucchese da degustare sotto un gazebo chiudono piacevolmente questo itinerario insolito, inedito e senz’altro divertente.
Alla prossima ! Gabriele Calabrese