Parliamo ora di un luogo dove si preparavano cibi sofisticati per pochi. Il palazzo dei Signori.
Palazzo Mansi racchiude in se due aspetti. Un esempio emblematico di tante dimore gentilizie lucchesi e, al contempo,essere museo nazionale dove si conservano, fra le molte altre, anche immagini dipinte dei prodotti coltivati o che il territorio offriva ed offre tutt’oggi, insieme alle usanze e attività commerciali ad essi legate.
Il palazzo si trova in via Galli Tassi 43. All’esterno dell’edificio, il sobrio intonaco chiaro e le anonime finestre con persiane, non mostrano in alcun modo, ne il fasto tutto barocco delle sue sale interne, ne i preziosi manufatti che vi sono conservati. E’ una riservatezza tutta lucchese; una sobrietà apparente che si dilegua man mano che il visitatore penetra al suo interno, una dopo l’altre, i piani e le stanze.
Ma procediamo con calma. Varcata la loggia e entrati dalla porta finestra del pian terreno ci troviamo all’interno di un ampio vano che conduce da una parte alle scale che salgono ai piani superiori e dall’altra, grazie a due porte in noce, agli appartamenti cosi detti estivi. Oggi conservano in alcune stanze dipinti e dall’altra una serie di vecchi telai lascito del laboratorio di tessitura rustica di Maria Niemack.
I telai sono tutt’ora in uso grazie al permesso della direzione del polo museale toscano e sopratutto all’attività di alcune tessitrici che perpetuano e rendono ancora viva questa antica tradizione locale.
In questa prima stanza di disimpegno si trovano alle pareti, nei pressi dello scalone, due disegni della prima metà del XVIII secolo. E’ il disegno a sinistra che, visto il tema che trattiamo, ci interessa rispetto all’altro che descrive la genealogia dei Mansi e l’accesso alle mura cittadine visto da Borgo Giannotti.
Questo primo disegno descrive invece la Villa Parensi: o meglio sarebbe più appropriato dire che descrive il concetto lucchese di palazzo in villa. E’ l’esemplificazione visiva di ciò che i latini descrivevano come villa e cioè l’insieme delle proprietà agrarie comprensive delle varie tipologie di coltivazioni, attività agrarie, venatorie, fattorie ed edifici vari che ruotano intorno al perno generatore che è il palazzo circondato dalla sua chiusa, ossia muro di recinzione.
All’interno di quest’ultimo si svolge l’otium. Questo non va confuso con l’odierna accezione negativa di pigra inattività, ma al contrario l’attendere ai beni fruttiferi della terra, ben diversa da quella della mercatura. Si generava così una nuova energia tutta intellettuale che si declinava talvolta, per alcuni proprietari più colti, nell’esercizio delle arti liberali (letteratura e scienza).
Si notano infatti, descritti con precisione da miniaturista, contadini, pescatori, villani, animali da cortile e da lavoro immersi nei campi che mostrano tutte le principali tipologie di coltivazioni lucchesi. Sono le stesse produzioni e gli stessi luoghi descritti con altrettanta dovizia di particolari dal manoscritto agrario inedito di Antonio Samminiati conservato nell’Archivio di Stato di Lucca. Nobile lucchese del XVI secolo, redasse in vari capitoli un vero e proprio manuale di agricoltura lucchese con le indicazioni per la coltivazione sia dei prodotti, che dell’edificazione dei palazzi in villa e loro annessi.
I Mansi erano entrati in possesso di questa Villa avendo sposato una Parenzi. La famiglia Mansi nel XVII secolo aveva raggiunto il massimo livello economico e di casta nella società patrizia lucchese grazie ad una proficua attività mercantile legata alle sete, con una spregiudicata politica matrimoniale e con la diversificazione delle proprie entrate investendo proprio nelle proprietà terriere e nelle attività agrarie.
Salendo le scale per raggiungere il piano nobile, l’iniziale sobrietà si tramuta in sfarzo. In particolare è il salone centrale della musica che colpisce il visitatore per le ricche quadrature barocche affrescate sia nei soffitti che delle pareti facendo parte delle complessive ristrutturazioni del palazzo volute da Raffaello Mansi e avvenute fra il 1686 e il 1691. Il pittori Gian Gioseffo dal Sole e Marcantonio Chiarini furono gli autori di questi apparati pittorici che descrivono scene mitologiche legate subliminalmente nelle loro vicende alla storia della famiglia Mansi. Infatti proprio in quegli anni la famiglia aveva stretto una nuova parentela con la potente e ricca famiglia bolognese dei Pepoli grazie al matrimonio fra Carlo Mansi e Eleonora Pepoli.
Anche in queste storie legate al mito tutto parte da una semplice mela: il pomo della discordia.
La mela d’oro che farà scegliere al pastorello Paride la più bella fra le dee dell’Olimpo ma che porterà, come conseguenza, il conflitto dal banchetto degli dei alla terra degli umani ed avrà come epilogo la guerra che vedrà Troia sconfitta e distrutta dalle fiamme appiccate dall’astuto Ulisse.
Una metafora chiara per mostrare alla nobiltà lucchese il futuro glorioso che nascerà con la nuova unione Mansi e Pepoli. Unione in grado di spazzare via le storie forse provinciali del passato e creare una nuova progenie feconda di gloria, così come nella storia dipinta farà Enea portando il suo seme fecondo sui lidi italiani per la sua nuova progenie che darà inizio alla gloria di Roma.
Oltrepassando questo salone si accede a quattro stanze dove sono raccolti dipinti provenienti dalle gallerie palatine di Firenze e donati dal Granduca Leopoldo di Toscana alla quadreria della città di Lucca da poco annessa al Gran Ducato con capitale Firenze ( 4 ottobre 1847) .
Nell’ultima sala vi sono due piccoli quadri di bamboccianti fiamminghi, In particolare uno di questi attira l’attenzione in quanto descrive una scena campestre dove dei rustici poveri campagnoli, assolutamente non curandosi della richiesta di elemosina di un pellegrino, sono indaffarati a mangiare avidamente a piene mani da una ciotola in terracotta spaghetti o pasta fresca tirata su direttamente dall’acqua. Sembra di assistere ad una famosa scena del film “miseria e nobiltà” del celebre comico italiano Totò degli anni ’60 del 900. Anche in quella scena, carica di comicità legata alle povere condizioni del ceto popolare napoletano, un intera famiglia si abbuffa, senza ritegno e senza freni inibitori, sugli spaghetti appena messi in tavola. Si mette qui in scena la commedia italiana presa direttamente dalla strada. Un verismo grottesco e caricaturale che doveva affollare le strade di ogni città italiana; dal meridione sino al nord della penisola del “bel paese”. Da Pulcinella ad Arlecchino, fra un espediente, una furberia e l’altra, la costante è sempre la stessa: la fame.
E sono proprio i ceti più umili, quelli del popolo che non ha possibilità di riscatto se non nella fede che ripone nella religione o in quella di uno stato benevolo e protettore come quello della repubblica di Lucca, quelli che il pittore lucchese Pietro Paolini “mette in scena” con accenti di incredibile verismo nei due dipinti che troviamo nella stanza subito dopo aver attraversato la sfolgorante e ricca camera dell’alcova.
Un venditore di pollame e un venditore di castagne.
Il primo, dipinto a mezzo busto in primo piano, si rivolge direttamente all’osservatore “bucando lo schermo” del dipinto esibendo con le dita della mano la cifra in numeri della richiesta di danaro: “Tre”. L’altro è un venditore di Caldarroste. Le dita grossolane e le unghie annerite dalla cenere rivelano assieme al volto il ceto infimo del popolano dedito al commercio per strada di uno dei frutti più comuni della montagna lucchese: la castagna. Frutto in grado di sfamare intere popolazioni tanto che quelle locali hanno denominato l’albero di castagno “l’albero del pane”.
Il Palazzo Mansi in virtù dei suoi frequenti aggiornamenti di gusto e di stile fu il luogo prescelto dalla repubblica lucchese per ospitare i personaggi più ragguardevoli per tutto il corso del XVIII secolo. Fu qui ospitato il principe poi re di Danimarca e per ultimi, nel 1785, i sovrani delle due Sicilie. In particolare rimane memorabile nelle cronache cittadine del tempo il pranzo offerto per quest’ultimi e tutta la corte al seguito. Le portate furono innumerevoli e si ricorda che per la prima volta fu servito il gelato. Se ne produsse così tanto che alla fine del pranzo fu offerto alla popolazione che affollava le strade limitrofe.
Con il nostro itinerario, abbiamo toccato alcuni punti della città che in vario modo sono legati al cibo e al gusto: I luoghi di culto, le botteghe antiquarie, gli spazi urbani dei mercati antichi, i palazzi del potere. Manca qualcos’altro ? Si ne manca ancora uno, e non è certo di secondaria importanza. Anzi… è fondamentale. Intendo il luogo per eccellenza dove si consumavano i cibi: le trattorie.
Questo post appartiene ad una serie di post dedicati all’arte ed al cibo
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