Si beve, si consuma, si accartoccia, si rompe e poi, sensibilità ecologica o meno, si butta via. Questo è il destino della maggior parte dei contenitori di cibo o bevande che usiamo quotidianamente. Spesso pensiamo che tutto ciò sia un cattivo costume tutto contemporaneo. Le ben note vicende di questi mesi, se non di questi anni, relative alle discariche più o meno abusive ormai stracolme di ogni genere di oggetti, biodegradabili e non, hanno riempito le cronache dei telegiornali di tutta Italia, contribuendo a far nascere in molti di noi una nuova sensibilità ecologica. Vi voglio raccontare però una storiella che mi è capitata uno di questi giorni nella campagna pisana. Facendo una delle mie passeggiate campestri in solitaria a me tanto care per rigenerare il corpo e sopratutto la mente, mi sono imbattuto in una discarica del tutto particolare, che mi ha fatto riflette su questo tema come se lo avessi osservato dall’altra parte del cannocchiale del tempo e della storia. Passeggiando per un viottolo sterrato, nei pressi di una fattoria, ho incontrato un giovane intento in lavori di giardinaggio. Ci siamo scambiati un saluto di buon giorno, vista la mattinata di sole radiante. Dopo alcuni convenevoli, avendo dichiarando quale era la mia professione, il simpatico giovane mi ha indicato un campo a pochi passi che forse poteva interessarmi. Secondo quello che aveva sentito dire e vista la quantità di cocci presenti, asseriva che in quel luogo anticamente, doveva sorgere un monastero di monache. Perplesso, ma incuriosito, l’ho ringraziato e senza indugio sono andato a vedere. Il campo nel tempo doveva essere stato arato con fatica. Quà e là, fra i ciuffetti d’erba rasata, spuntavano ancora tracce di pannocchie di mais. Dico con fatica perchè ovunque si notavano cocci di terracotta sbriciolati di varia forma che si alternavano a pietre di calcare bianco anch’esse della dimensione non superiore ad una palla. Se un tempo in quel campo sorgeva un monastero, le suorine dovevano essersi trasformate in vere e proprie formichine demolitrici, per di più segrete seguaci di Attila, per essere in grado di rasare in quel modo un intero monastero a livello zero e forse sotto zero. Dopo un primo veloce e distratto sguardo a volo d’uccello, l’occhio si è fatto più acuto e si è poi focalizzato su due pezzi di terracotta non distanti fra loro. Sorpresa delle sorprese, altro che monastero ! Quella, probabilmente, doveva essere una discarica dell’epoca quanto meno romana . Potremmo definirla senza ombra di dubbio una discarica “storica”. La mia ipotesi credo sia confutata dai due oggetti adocchiati, che erano in realtà due puntali di anfora. Attorno ne vidi un’altro. Come noto le anfore importate o esportate dalle navi annonarie romane, una volta utilizzate, venivano distrutte come vuoti a perdere. Ricordo ancora il buon Alberto Angela in uno dei suoi documentari che mostrava un intera collina realizzata con i cocci delle anfore. Ecco allora che i nostri usi e costumi odierni, come il gettare una lattina di birra usata nel cassonetto dei materiali riciclabili, acquisiscono una dimensione storica più accettabile e non molto diversa da quella dei nostri predecessori. Ciò che ci differanzia sono solo i numeri. “Non c’è futuro senza storia” ha detto qualcuno. Riflettendo però, Mi spaventa però molto di più anche la frase se vista dalla prospettiva opposta: “non ci sarà storia senza un futuro”. Quindi, esempio dei romani o meno, continuiamo quanto più possibile a riciclare ed a usare materiali riciclabili.
Gabriele Calabrese