In questo post cambio decisamente tono, sterzando su un tema diverso ma sempre relativo a quei saperi nei quali una guida turistica dovrebbe essere in grado di destreggiarsi, più o meno bene: letteratura e poesia.
Più precisamente, oggi vorrei fare cenno alla poesia vernacolare lucchese. Chi legge comprende bene che questo è un soggetto difficile da proporre ad una clientela turistica che, se pur italiana, spesso proviene da regioni con dialetti diversi; forse meglio dire lingue diverse.
Anche io ho dovuto “cambiare lingua” da adolescente. Sono nato a Milano e mia madre faceva di cognome Bassetti ma, arrivato ai dodici anni, mi “lucchesizzai” in fretta anche se, a dire il vero, una certa esse ronzante mi è rimasta, facendomi dire ancora oggi casa e chiesa con accento decisamente nordico. Tuttavia, mio padre, lucchese nel cuore e nell’anima, mi ha sempre declamato un altro tipo di dialetto arguto e piacevole. In famiglia spesso leggeva le poesie di Geppe, al secolo Gino Custer De Nobili, tratte dalla raccolta “Lucca mia bella”.
Questo letterato lucchese di nobile discendenza nacque a Lucca nel 1881 per poi trasferirsi a Milano dove morì nel 1968. Fu frequentatore del celebre Caffè Caselli, poi Di Simo e amico di Giacomo Puccini che lo introdusse sia nei salotti buoni milanesi che nella cultura letteraria e musicale della città meneghina. A Lucca si era diplomato in pianoforte all’Istituto Musicale Pacini (oggi conservatorio Boccherini). Se i lucchesi lo ricordano è senza dubbio non certo per i libretti d’opera che scrisse o per la letteratura “colta” che pubblicò, bensì per la sua raccolta di poesie in vernacolo.
La maggior parte dei suoi componimenti sono brevi e tuttavia pungenti, capaci di mettere a nudo in poche parole dialettali l’anima dei lucchesi. Ci regalano per lo più quadretti di vita locale di tempi ormai andati, di una Lucca che fu.
I suoi temi a tratti fanno trasparire la riscoperta della storia locale ed in particolare medioevale di stampo neogotico con accenti di vero e proprio campanilismo. Valga come esempio la descrizione in chiave comica delle infinite battaglie fra lucchesi e pisani come quella divertentissima della disfida di Pontetetto, quando mette in bocca a Bonturo frasi colorite indirizzate al popolo lucchese come : “… O popolo di Lucca peorona. È l’ora di fonilla “. E giù un sagrato ! “Il nemico è sull’Ozzeri accampato”. Il pisan crudele e maleditto!”.
Ma non è più tempo di “faide di comune”. Oggi, visite come vanno le cose, fortunatamente siamo e dobbiamo essere un solo popolo, una sola gente.
Tuttavia, visti i tempi in cui io come guida e tutti noi lucchesi non possiamo più passeggiare liberamente facendo lo “ struscio” per le vie del centro storico e nemmeno sulle Mura a causa del coronavirus che infetta tutto il mondo, qui di seguito trascrivo una sua breve poesia dal titolo “Fillungo” che, come molti sanno, è il salotto buono e l’anima della città dove, prima o poi , tutti i lucchesi si incontrano e si rincontreranno.
Fillungo
Maledeggio a sta’ fermi. Via. Mi movo.
Faccio tre o quattro strade e mi ritrovo
subbito nel Fillungo.
Un giro, arivo ‘n Piazza San Michele,
du’ altri giri, e lì, per dindo mele,
Ripicchia nel Fillungo.
Trovo un amico…”Andiamo ‘ n Piazza Grande…”
Si discore… Mi fa delle dimande…
Si rie’ nel Fillungo.
Vado dietro a una bimba nusulle Mura…
Ni studio le mossine, la fegura…
E danni nel Fillungo!
O Fillungo, Fillungo,
rinchiuso, stretto e lungo!
Fillungo, Fillunghetto,
rinchiuso, lungo e stretto!
Gabriele