Sono due giorni che proviamo a riflettere sul concerto di Nick Cave & the Bad Seeds a Lucca. Due giorni di pensieri sulla musica, sul blues, sul diavolo, sulla disperazione, sulla ricerca di conforto e sollievo. Due giorni e ancora non ci abbiamo capito molto, il treno è passato potente e ci ha travolto in corsa.
Nick Cave è un caposcuola, un maestro, un guru, uno sciamano, un cacciatore di vampiri. Nick Cave è andato in giro con il diavolo e il diavolo gli ha strappato suo figlio quindicenne.
Questa è una drammatica realtà, la più plausibile per tentare di capire quello che accade sul palco di questo tour.
Mai come oggi la vita e la disperazione suonate da Nick Cave & The Bad Seeds hanno una tale forza mistica e rabbia sonora da lasciare storditi. Pieni e vuoti improvvisi, dinamiche che colpiscono con straniante violenza.
Da sempre il suo viaggio è quello di un punk alla scoperta dei voodoo di New Orleans, nel fango del delta del Mississippi, un viaggio nel blues profondo e senza regole, giù fino alle viscere della terra.
A Lucca, martedi 17 luglio, è andato in scena tutto questo.
Nick Cave & The Bad Seeds sono saliti sul palco alle 21:30 per scendere due ore dopo con Piazza Napoleone in fiamme.
Fin alle prime note di “Magneto”, che segue “Jesus alone” nella scaletta, capiamo bene che ci è toccata una notte senza mezze misure, con un Nick Cave indiavolato fin da subito. L’esplosione vera arriva dopo qualche brano, quando si torna indietro ai tempi di “From her to eternity”, salutata dal pubblico con un’ovazione, che porta un crescente fragore, una rabbia distorta capace di scuotere e lasciare storditi ed eccitati al tempo stesso.
Dopo “Loverman” è la campana di “Red right hand” a dare la misura di una furia che sembra sempre placarsi, per poi riportare lo sconquasso.
La fase dedicata alle ballads si apre con una versione rallentata di “The ship song”, mentre “Into my arms” è più fedele all’originale, con Nick a scandire le parole:I don’t believe in an interventionist God, but darling, I know, that you do” (Non credo in un Dio interventista/ma so, cara, che tu ci credi). Quel Dio che non esiste nella vita e nelle convinzioni del cantautore australiano, ma che invece permea il mondo delle sue canzoni.
E a pensarci bene questo concerto ha un che di messianico.
“Tupelo” e “Deanna” riportano la temperatura in cima alla colonnina, Ormai Nick ci tiene tutti tra le mani, non solo quelli schiacciati alle transenne della passerella percorsa centinaia di volte, ma anche noialtri a qualche decina di metri: “Jubilee street” e “The weeping song” riportano una calma del tutto instabile, “Stagger Lee” è una mano infilata nella presa di corrente, come al solito, ed è il momento in cui si verifica l’invasione di palco. Poco dopo, cantando una versione eccellente di “Push the sky away”, il padrone della piazza invita il pubblico a spingere il cielo verso l’alto con le mani, in un gesto comandato, coreografico, ancora una volta meravigliosamente esagerato.
Sarà “Rings of Saturn” a chiudere la serata lasciandoci storditi con la voglia di capire fino in fondo quello che è successo, senza essere sicuri di riuscirci.
Articolo di Carlo Puddu e Lorenzo Mei