Per un “giovane” quasi cinquantenne come me, i ricordi cominciano ad ammantarsi spesso di nostalgia. Se penso al tempo degli studi universitari pisani, alcuni di quei momenti sono rimasti impressi in modo indelebile nella mia memoria. Piazza dei Cavalieri. Il primo sole primaverile di mezzogiorno. Due giovani , lui e lei, seduti con le spalle al muro della chiesa, si godono felici la vita guardando gli altri che passano. Senza un perché, l’uno propone all’altra di entrare; così, per pura curiosità. E’ la chiesa dell’ordine dei Cavalieri di Santo Stefano. L’edificio è deserto. Pochi passi, giusto il tempo di guardarsi intorno per cercare di comprendere ciò che li circonda e di botto vengono entrambi mentalmente, involontariamente, ma quasi brutalmente, scaraventati in un altra dimensione temporale.
Dopo poco gli occhi si abituano al cambio repentino di luce e l’interno della chiesa comincia a prendere forma in tutti i suoi dettagli. Appaiono così, uno dopo l’altro in buon ordine sui muri, bandiere variopinte, vessilli a fiamma di seta con incomprensibili ma sinuose scritte in lingua araba. Anche nella controfacciata sono appesi quelli che appaiono due scuri e possenti fregi in legno decorato dove emergono in rilievo teste rasate di mori ed intarsi pregiati. Il ricco soffitto, anch’esso intagliato magistralmente da un artista toscano di fine cinquecento, racchiude nel centro quadri che celebrano gesta guerresche di cavalieri. Uomini barbuti racchiusi dalle loro corazze brunite, naviganti e nobili a bordo di snelle galee che solcano il mare. Uno spettacolo sorprendente anche per i due giovani studenti . Sembra quasi che emergano in lontananza le urla dei combattenti, l’odore del salmastro, della pece e delle gomene. Lo scandire misurato delle pale dei remi che affondano nelle calde acque del Mediterraneo, si alternano al ritmo delle urla del comito, il negriero che dava il tempo di remata.
Quel giorno, come quella ragazza che non so dove oggi sia, è ahimè volato via assieme a molti altri. Eppure sembra ieri. La chiesa e le bandiere no; sono ancora là e vale la pena di visitarle come vale la pena di conoscere più a fondo la storia dell’ordine equestre, I Cavalieri di Santo Stefano e dell’intera piazza che a Pisa ne prende il nome.
Fu il Gran Duca Cosimo a chiedere al Papa Pio IV nel 1561 il permesso di istituire un ordine militare di cavalieri toscani di antico lignaggio, con il compito di contrastare la minaccia sempre più crescente delle scorribande corsare dei turchi levantini. Basta guardare lungo le coste dell’intero litorale toscano le torri e le fortificazioni che vennero costruite o rinforzate a partire dalla metà del XVI sec. sino a tutto il XVIII sec. Forte dei Marmi prende appunto il nome da una di queste piccoli edifici difensivi. Con la fondazione dell’ordine che avrebbe avuto come centro di addestramento e burocratico Pisa, un tempo antica Repubblica Marinara, Cosimo dichiarava in modo manifesto il desiderio di affermare il suo dominio almeno sulla costa tirrenica a lui pertinente. Nel contempo avrebbe dato ottime opportunità di gloria, di conquiste e razzie “da corsa” a quella parte della nobiltà toscana ed in particolare pisana di recente acquisizione. La Piazza delle Sette Vie poi detta dei Cavalieri divenne il fulcro delle attività dell’ordine. Furono ristrutturati relativamente in breve tempo gli antichi edifici e torri ivi esistenti in favore del palazzo della carovana (dove si addestravano alle armi i cavalieri), il palazzo di giustizia dell’ordine, alcuni acquartieramenti e appunto la chiesa. Il tutto grazie al progetto ed al coordinamento di Vasari e di abili artisti contemporanei. Le occasioni di menar le mani a cavallo del XVI/XVII secolo non mancavano. Inoltre i frequenti attriti con l’impero e con il re spagnolo Filippo II, suggerivano di tenere pronte sulla difensiva nel porto della darsena medicea di Livorno una piccola ma efficiente squadra di galee. Le occasioni più redditizie furono due: la celebre battaglia di Lepanto in termini di gloria, combattuta e vinta dalla lega cristiana nel 1571 contro la flotta turca e la presa di Bona nel 1607 (oggi Annaba in Algeria) in termini di saccheggio. Le fasi di questa operazione militare vengono descritte, forse in modo un pò enfatico, in un piccolo saggio del 1890 sulla storia della famiglia Inghirami di Volterra. L’ammiraglio Inghirami fu il comandate che a capo dei cavalieri partecipò alla presa di Bona.
Non sappiamo in realtà da quali galee turche provengano le belle fiamme e fanali di poppa esibiti come prede nella chiesa di Santo Stefano a Pisa. Purtroppo i libri con gli elenchi delle prede fatte dai cavalieri sono andati perduti, si dice, in un incendio. Restano comunque i manufatti in tutta la loro bellezza decorativa e sopratutto in tutto il loro valore storico ed evocativo di quei drammatici e violentissimi scontri.
E’ un peccato che Pisa, per ricordare le sue glorie repubblicane di potenza marinara e per testimoniare i fatti di cui stiamo parlando, non abbia un museo della marineria in grado di mostrare l’evoluzione tecnologica delle proprie imbarcazioni dal Medioevo sino al Regno d’Italia. Molti dei manufatti sono andati irrimediabilmente perduti. Le galee poi, per la loro stessa natura di esili imbarcazioni in legno, subivano un veloce ed inesorabile deterioramento già due anni dopo il loro varo nell’arsenale pisano, tanto da essere costantemente sostituite nelle operazioni militari più impegnative, si può dire quasi anno dopo anno .
Un altro elemento importante di queste navi da guerra era l’armamento. Le galee pisane e cristiane in genere, secondo gli storici più aggiornati, ebbero in più, rispetto alle imbarcazioni turche almeno sino alla fine del XVI secolo, un migliore e più nutrito numero di cannoni e un migliore equipaggiamento individuale dei soldati di fanteria imbarcati in gran numero (100/200 fanti mercenari per imbarcazione ). Nel museo delle armi di Venezia è conservato il cannone da corsia di una galea toscana. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto non abbiamo a Pisa un museo delle armi in grado di mostrare tale equipaggiamento. Per farsi un idea degli armamenti del tempo, esiste l’interessante museo Stibbert di Firenze. Una vera Mecca per gli amanti del genere. Tuttavia nel Palazzo Reale di Pisa sono ancora conservate alcune armature di quei secoli e forse un tempo in uso ai cavalieri o alle truppe mercenarie sicuramente poi riciclate per il popolarissimo gioco del mazzascudo , sostituito in seguito da quello detto del ponte. Esse danno un’idea del dispendio di energie che un singolo soldato doveva esprimere per la durata di almeno tre ore di battaglia senza alcuna esclusione di colpi. Oltre al cannone l’altra arma decisiva fu l’archibugio, ossia l’arma da fuoco individuale del fante attaccante. Con questa arma sparata a distanza ravvicinata dallo schieramento dei soldati imbarcati, i ponti delle galee turche venivano letteralmente spazzati. I pochi difensori rimasti venivano finiti e fatti a pezzi dalle armi corte da taglio individuali usate nell’arrembaggio. Una vera e propria macelleria. Chi si arrendeva diveniva schiavo nei mercati europei o impiegato direttamente come forzato al remo delle galere.
Quei tempi di supposte glorie e di molte brutali sofferenze sembrerebbero passati. Oggi rimangono solo alcune vestigia, che turisticamente parlando, cerchiamo di mostrare annodandone i fili. Se riuscirò, proverò in seguito a produrre una mappa con la numerazione dei luoghi descritti, così da agevolare la visita al curioso turista. A me rimane invece, più che altro, il bel ricordo di quel giorno di inizio primavera che auguro a tutti i giovani di poter vivere almeno una volta.
Gabriele Calabrese